Era stata proprio un’idea balzana. Quella mattina, appena messo i piedi giù dal letto,
aveva deciso di non andare al lavoro. Si era vestita e aveva fatto colazione a ritmi più
lenti di quelli abituali, poi, uscita di casa, si era incamminata senza una direzione
prestabilita, senza pensare a cosa fare di quella giornata di evasione. Come una foglia,
si era fatta sospingere da quel nuovo desiderio di leggerezza con cui si era svegliata.

Procedeva osservando intorno: le luci dei lampioni che si spegnevano ad uno ad uno
con il chiarore del mattino, le auto che seguivano ognuna il proprio usuale itinerario,
le serrande delle vetrine che si aprivano come un lento sbadiglio sul mondo. Poi, dopo
ore di camminata, il mondo cominciò a diradarsi, a farsi meno rumoroso. Era arrivata
ormai alla periferia della città, e ancora oltre, dove iniziavano le strade di campagna,
gli alberi più numerosi, le ville rinchiuse dentro i loro cancelli, i campi coltivati già in
attesa dell’inverno. Non si era resa conto di aver fatto chilometri. Arrivò in una piccola
cittadina; il cielo cominciava a vestirsi da sera. Entrò in un piccolo bar per un panino e
un caffè. Si sentì come sotto a una lente di ingrandimento, esaminata dalla testa ai
piedi da quattro avventori che stavano giocando a carte, in un silenzio quasi irreale.

Si affrettò a consumare il suo pasto, poi sussurrò un timido saluto verso il barista, per
non disturbare quell’atmosfera paesana, dove tutti si conoscono, e nella quale si era
sentita un’intrusa. Voleva ritornare a casa, anche se quella casa non le apparteneva e
la data dello sfratto si stava avvicinando. E poi a casa era sola. Lui se n’era andato con
un’altra. Sua figlia non si faceva vedere da quasi due anni, e tutto era andato in
frantumi. Erano rimasti soltanto i problemi e l’ansia del domani.

Aprì la porta del bar e l’aria fresca le restituì per un istante quella sensazione di
leggerezza che aveva provato nelle prime ore del mattino. Poi, soggiogata di nuovo dai
pensieri che le si agitavano dentro, non si era accorta di aver imboccato la strada
sbagliata, al bivio della statale. Si era così trovata a passare nei pressi di un altro
paesino, ai confini del quale un’ampia radura ospitava un luna-park costellato da
centinaia di luci colorate che si accendevano e si spegnevano a ritmo di musica
elettronica. In quell’attimo, aveva sentito salire dal cuore una specie di rapimento, un
istinto fanciullesco che l’aveva pungolata a entrare nel parco divertimenti. Era aperto,
ma non c’era molta gente in giro, un po’ forse per la pioggia che, seppur leggerissima,
aveva increspato l’aria di una sottile umidità fastidiosa, e un po’ per il buio di quel
tardo pomeriggio autunnale, che cominciava a diffondersi sempre più repentino.

Dopo aver pagato il biglietto, s’incamminò tra le giostre. Non le erano mai piaciute
molto, nemmeno in gioventù. Le uniche attrazioni che, da ragazzina, l’avevano sempre
incuriosita erano il castello delle streghe e il tunnel degli specchi. Adesso, dopo più di
cinquant’anni, infondevano in lei ancora una tenue seduzione, forse per un residuo di
nostalgia delle cose perdute, o un’indelebile attrattiva per il mistero. Proseguiva senza
fretta lungo il viale centrale del parco giochi e si domandava se i tunnel degli specchi
deformanti esistessero ancora. Pensava ai ragazzi di oggi, attratti dall’elettronica, da
svaghi più sofisticati, e al fatto che di certo i luna-park si fossero dovuti adeguare alle
nuove tendenze e alle aspettative giovanili. Per questo si stupì parecchio, quando vide
un’insegna luminosa, con una scritta multicolore lampeggiante, a indicare l’ingresso
di un “Labirinto degli Specchi”, e sisentì persino un po’ ridicola nel provare il desiderio
di entrarci, ma obbedì a quel moto di entusiasmo e si diresse alla biglietteria come se
sul suo volto fosse sbocciato il sorriso di una bambina felice. In realtà non era così.

Non ricordava neppure quand’era stata l’ultima volta in cui aveva provato qualcosa
che assomigliasse alla felicità. Forse aveva creduto, per un po’, di essere una persona
appagata e serena, ma quel castello scintillante di illusioni aveva ceduto giorno dopo
giorno, lasciando la sua vita sempre più allo scoperto, sotto ad un cielo oscuro e
spaventevole. Per questo, fin dalla mattina aveva sentito l’incontenibile urgenza di
allontanarsi da tutte le paure che l’avevano sempre tenuta incatenata a cose e
situazioni che non erano mai appartenute alla sua vera natura.

Con questo fagotto di pensieri, varcò l’ingresso, salì alcuni scalini, attraversò un breve
corridoio di specchi che conduceva al labirinto e, all’improvviso, si trovò immersa in
una riproduzione infinita di se stessa. Se stessa nelle forme più bizzarre, alcune più
goffe e, alcune, addirittura terrificanti, a seconda se si avvicinava di più o di meno alle
superfici riflettenti. Pochi minuti, tuttavia, le bastarono per rendersi conto che gli
specchi deformanti non esercitavano più su di lei quella curiosità e quel fascino che
aveva provato quando, da piccola, era entrata per la prima volta in un labirinto simile,
insieme a suo padre, che la teneva per mano. Si ricordò di quel tempo: si era divertita
molto in quel gioco che le era sembrato interminabile, in quello spazio che allora aveva
percepito come un’immensità senza principio e senza fine, come in un sogno.

Ogni tanto, s’infilavano in un percorso cieco, procedevano piano per non rischiare di
sbattere il naso contro gli ingannevoli specchi. Si sentiva protetta dalla presenza di suo
padre, sapeva che prima o poi avrebbero trovato l’uscita. Era certa che sarebbe
tornata a casa sana e salva, anche se il labirinto sembrava ingarbugliarsi sempre più,
ad ogni passo.

Ora invece, lì da sola, mentre le giungevano suoni ovattati dall’esterno, stava
immobile, imprigionata tra decine di specchi che le rimandavano indietro le sue paure
segrete, quelle antiche, quelle sopite e mai dissolte: lo smarrimento di sé, il perdersi,
l’incapacità di ritrovare la strada conosciuta, il rischio di nuove esperienze, l’oblio della
gente, la solitudine, l’abbandono, la scomparsa. Impietrita, in quello che adesso le
pareva un incubo, osservava i suoi mille volti da tutte le angolazioni, in un
caleidoscopio di emozioni che non era mai riuscita ad affrontare dentro, né a
proteggere dal mondo fuori. Erano lì, ora, tutte intorno a lei, in riflessi che si
moltiplicavano e mutavano continuamente, ad accelerare il battito, a togliere il
respiro, a rimproverare la sua fragilità. Poi, come gemme a lungo cristallizzate, le sue
lacrime si sciolsero nel tepore di un pianto. Appoggiò la schiena ad una parete del
labirinto, scivolò giù fino a sedersi, posò i palmi delle mani sugli occhi e, nel suo buio,
richiamò alla mente tutte le parole che di solito usava per calmarsi.

Accogli te stessa. Sei una guerriera. Non c’è alcun pericolo.
Poco prima aveva desiderato che suo padre potesse tenderle di nuovo la mano e
aiutarla a trovare la via d’uscita. In quella strana giornata, stava invece accadendo
qualcosa di diverso. Da qualche parte, nel suo cuore, sapeva che sarebbe stata lei
stessa a occuparsi di quella bambina che poco prima era precipitata in un labirinto di
angosce. Aprì lentamente gli occhi, osservò tutte le sue immagini riflesse,
frammentate, deformi, il suo viso tondo e gigantesco, poi allungato e sottile, le braccia
corte e tozze, poi lunghe fino ai piedi, il suo corpo grasso di fronte a uno specchio
concavo, e magrissimo di fronte ad uno convesso. Quegli specchi avevano alterato la
percezione che aveva sempre avuto di se stessa, facendola sprofondare nel panico.

Ora, invece, un pensiero le ribaltava quella prospettiva: quel che vedeva sugli specchi
erano le sue stesse proiezioni, le sue inquietudini che assumevano fogge mostruose,
e tutte quelle emozioni e sfaccettature della sua personalità che a lungo aveva cercato
di nascondere e tenere a bada, per timore di non piacere, di deludere le persone o
perderne l’affetto. Si sorprese di quel nuovo sguardo nitido che sentiva aprirsi
nell’animo e che ampliava l’orizzonte davanti a lei. Tese la mano alla bambina e,
seguendo il proprio intuito, trovò il percorso per condurla fuori dal labirinto.

Il luna-park stava per chiudere i cancelli. Ora si tornava a casa. La strada da percorrere
era tanta, ma l’oscurità della notte non sembrava più così temibile.
E poi non era più sola.

 

Laura

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